Era una persona complessa. Sicuro. Sicurissimo.
Prince aveva una personalità difficile da comprendere, per chiunque, ad un primo sguardo. Ad uno sguardo superficiale. Specie per chi lo vedesse/incontrasse per la prima volta.
(i pochi autorizzati ad entrare all’interno della sua zona di rispetto e solo per il tempo strettamente necessario, ovviamente, e niente di più)
Come molti di noi – egli possedeva molti strati disposti sotto la sua superficie, ma non permetteva a nessuno di scavare là sotto.
Non lo ha mai permesso a nessuno.
Si celava a tutti, dunque.
Mostrava sempre e soltanto quello che ritenesse utile mostrare in quel momento. Niente di più. E mai troppo a lungo.
In questa intervista che concede nel 1985 – dopo anni di silenzio stampa – a Neal Karlen di Rolling Stone egli decide di sembrare abbordabile. Un ragazzo qualunque, arrivato al successo dopo una serie infinita di dolori e difficoltà.
(la pura verità, a dire il vero)
Uno che fa una vita regolare, fatta di lavoro e lavoro.
(il che è perfettamente vero)
Voleva allontanare ogni diceria sui suoi comportamenti bizzarri ed eccolo lì: il ragazzo della porta accanto, timido, ma accessibile.
(il che è anche – altrettanto e assolutamente – vero, sotto un certo punto di vista)
Questa intervista – come ho sottolineato più volte – è una sorta di unicum. Pochi sono riusciti ad avvicinarlo e ad affiancarlo nel modo in cui Neal Karlen ha potuto fare in quell’occasione. Passando così tante ore con lui. Guardandolo muoversi davanti a lui, senza la mediazione di staff e di assistenti personali.
Prince viveva di distanza.
Per capire chiaramente il suo modo di fare ed inquadrarlo per ciò che egli era realmente, è necessario tenere sempre in mente le parole che sarebbero state pronunciate qualche anno più tardi da Alan Leed – suo storico tour manager e fratello di Eric, sassofonista nelle varie band di Prince per molti anni.
Alan Leed: uno che ha potuto osservare bene Prince per anni, dunque, a lungo e molto da vicino.
Una fonte molto affidabile e sincera.
In quella intervista degli anni Novanta Alan Leed avrebbe sottolineato come Prince – in qualsiasi cosa riguardasse i suoi rapporti con il mondo esterno – agisse sempre all’interno di un ben preciso programma che aveva in mente e come non desiderasse avere dagli altri né concedesse loro alcuna confidenza di carattere personale.
Semplicemente perché avere una qualche forma di confidenza con gli altri non rientrava nella sua struttura mentale, nella sua personalità.
Era una private person, come hanno spesso detto in molti. Private: in un modo che arrivava quasi a rasentare la paranoia.
(e qui, inevitabilmente, torniamo ai comportamenti bizzarri che in molti avevano osservato in lui, senza peraltro capirne il senso)
In questo senso, dunque, va letta tutta la giornata che Prince decide di trascorrere (nel giorno del compleanno di suo padre John) insieme a Neal.
Era stato tutto più o meno organizzato da lui, con uno scopo preciso. Far vedere che non era a weirdo.
Nonostante questo piano di partenza, con il trascorrere delle ore, Prince scopre di avere una grande affinità con Neal, che, proprio per questo, sarebbe poi diventato una delle persone più vicine a Prince, restandolo fino alla fine, fino alle sue ultime settimane.
Torniamo al racconto a quella giornata trascorsa insieme da quei due ragazzi.
Siamo quasi alla sua conclusione.
Prince e Neal escono dalla Purple House, diretti verso un luogo ancor oggi simbolico a Minneapolis: il First Avenue.
Il locale di Purple Rain, il locale dentro il quale chi avesse la pelle nera non era autorizzato a suonare. Un luogo che ha rappresentato per Prince un punto di arrivo, sotto tutti i punti di vista.
Ci sono degli amici che aspettano Prince, quella sera. I due escono di casa e si dirigono verso il First.
“A few minutes later, driving toward the First Avenue club, Prince is talking about the fate of the most famous landmark in Minneapolis”1
(pochi minuti più tardi, guidando verso il First Avenue, sta parlando del destino del più famoso punto di riferimento di Minneapolis)
Prince sembra quasi rimpiangere i tempi in cui era ancora uno sconosciuto chitarrista prodigio.
(ovviamente non è così)
“Before Purple Rain” – he says – “all the kids who came to First Avenue knew us, and it was just like a big, fun fashion show. The kids would dress for themselves and just try to took really cool. Once you got your thing right, you’d stop looking at someone else. You’d be yourself, and you’d feel comfortable”
(“Prima di Purple Rain” – dice – “tutti i ragazzi che arrivavano al First Avenue ci conoscevano e questa era semplicemente una grande, divertente sfilata di moda. I ragazzi si sarebbero vestiti per loro stessi e cercando semplicemente davvero cool. Una volta che ti fossero state ben chiare le tue cose, avresti smesso di guardare verso qualcun altro, saresti stato te stesso e ti saresti sentito a tuo agio”)
Then Hollywood arrived.
(poi è arrivata Hollywood)
È arrivata Hollywood, insieme al successo planetario, alla fama tanto desiderata. Tutte cose che gratificano immensamente l’Ego di un artista, ma che rivelano solo ad un certo punto i loro risvolti negativi.
O meno positivi del previsto.
“When the film first came out” – Prince remembers – “a lot of tourists started coming. That was kind of weird, to be in the club and get a lot of ‘Oh! There he is!’ It felt a little strange. I’d be in there thinking, ‘Wow, this sure is different than it used to be!’”
(“Quando è uscito per la prima volta il film” – ricorda Prince – “un bel po’ di turisti ha iniziato ad arrivare. Era una strana cosa, essere nel club e trovarsi di fronte ad un sacco di ‘Oh! Eccolo!’ Mi sembrava un po’ strano, trovarmi lì, mentre pensavo: ‘Wow, questo è qualcosa di diverso rispetto a prima!’ ”)
“Now, however, the Gray Line Hip Tour swarm has slackened. According to Prince – who goes there twice a week to dance when he’s not working on a big project – the old First Avenue feeling is coming back”
(ora, tuttavia, lo sciame dei Gray Line Hip Tour non è più così fitto. Secondo Prince – che va lì un paio di volte a settimana se non sta lavorando ad un grande progetto – la sensazione legata al vecchio First Club sta ritornando)
“There was a lot of us hanging around the club in the old days” – he says – “and the new army, so to speak, is getting ready to come back to Minneapolis. The Family’s already here, Mazarati’s back now too, and Sheila E. and her band will be coming soon. The club’ll be the same thing that it was”
(“Eravamo in parecchi a bazzicare nel club ai vecchi tempi” – dice – “ed il nuovo esercito, per così dire, si sta preparando a tornare a Minneapolis. The Family è già qui, Mazarati sta tornando proprio ora e Sheila E. e la sua band arriveranno presto. Il club tornerà ad essere quello che era”)
“As we pull up in front of First Avenue, a Saturday-night crowd is milling around outside, combing their hair, smoking cigarettes, holding hands. They stare with more interest than awe as Prince gets out of the car”
(mentre ci fermiamo davanti al First Avenue, una folla da sabato sera si accalca fuori, pettinandosi i capelli, fumando sigarette, tenendosi per mano: fissano con più interesse che stupore Prince che scende dall’auto)
Anni dopo, riprendendo, all’interno di un suo libro, questa stessa scena, Karlen avrebbe raccontato di aver visto comparire per la prima volta proprio lì la “faccia di granito” che Prince inalberava quando si trovava tra facce sconosciute: lineamenti tirati, voce appena borbottante.
(la timidezza incurabile e radicale era uno dei suoi tratti più caratteristici: incredibile a dirsi)
“You want to go to the [VIP] booth?” – asks the bouncer – “Naah” – says Prince – “I feel like dancing”
(“Vuoi andare. Nella zona [VIP]?” – chiede il buttafuori – “Naah!” – risponde Prince – “Ho voglia di ballare”)
“A few feet off the packed dance floor stands the Family, taking a night off from rehearsing. Prince joins the band and laughs, kisses, soul shakes. Prince and three of Family members wade through a floor of Teddy-and-Eleanor-Mondale-brand funkettes and start moving. Many of the kids Prince passes either don’t see him or pretend they don’t care. Most of the rest turn their heads slightly to see the man go by, then simply continue their own motions”
(a pochi metri di distanza dalla pista gremita c’è The Family, che si sta prendendo una notte libera dalle prove. Prince e tre dei Family guadano attraverso una pista piena di funkettes del brand di Teddy and Eleanor Mondale ed iniziano a ballare. Molti dei ragazzi attraverso cui Prince si muove o non lo vedono o fanno finta che non gli importi. La gran parte degli altri gira leggermente la testa per vedere passare l’uomo, poi continua semplicemente a ballare)
“An hour later, he’s on the road again, roaring out of Downtown. Just as he’s asked if there’s anything in the world that he wants but doesn’t have, two blondes driving daddy’s Porsche speed past”
(un’ora più tardi, Prince è di nuovo in strada, ruggendo fuori da Downtown; gli avevo appena chiesto se ci fosse qualcosa al mondo che avrebbe voluto ma che non aveva: due bionde sfrecciano accanto, guidando la Porsche di papà)
“I don’t” – Prince says with a giggle – “have them”
(“Non ho quelle!” – dice, con una risatina)
Arriva a questo punto una delle scene più incredibili della giornata: dice molto di lui, della sua voglia di rivalsa sulle umiliazioni antiche, del suo bisogno di sentirsi riconosciuto, sempre e comunque, della sua timidezza, del suo innato sense of humor.
“He catches up to the girls, rolls down the window and throws a ping-pong ball that was on the floor at them. They turn their heads to see what kind of geek is heaving ping-pong balls at them on the highway at two in the morning. When they see who it is, mouths drop, hands wave, the horn blares. Prince rolls up his window, smiles silently and speeds by”
(raggiunge le due ragazze, abbassa il finestrino e lancia verso di loro una pallina da ping-pong che si trovava sul pavimento della macchina: loro girano le teste per guardare il tipo strano che sta lanciando loro palline da ping-pong sull’autostrada alle due del mattino; quando si rendono conto di chi sia, bocche spalancate, mani che salutano, il clacson suona: Prince tira su il suo finestrino, sorride in silenzio ed accelera)
“Off the main highway, Prince veers around the late-night stillness of Cedar Lake, right past the spot where Mary Tyler Moore gamboled during her TV show’s credits. This town, he says, is his freedom”
(fuori dall’autostrada principale Prince gira intorno all’immobilità da notte fonda del Cedar Lake, proprio oltre il punto in cui Mary Tyler Moore ha giocato d’azzardo durante i titoli di coda del suo show: questa città – dice lui – è la sua libertà)
“The only time I feel like a prisoner” – he continues – “is when I think too much and can’t sleep from just having so many things on my mind. You know, stuff like, ‘I could do this, I could do that. I could work with this band. When am I going to do this show or that show?’ There’s so many things. There’s women. Do I have to eat? I wish I didn’t have to eat”
(“Il solo momento in cui mi sento prigioniero” – continua – “è quando penso troppo e non riesco a dormire, per via di così tante cose che mi frullano in testa. Sai, cose come ‘Potrei fare questo, potrei fare quello. Potrei lavorare con questa band. Quando farò questo o quello spettacolo? Ci sono così tante cose. Ci sono le donne. Devo mangiare? Vorrei non dover mangiare’ ”)
Sulla questione del cibo sarebbe necessaria una sosta importante della narrazione: Prince soffriva quasi sicuramente di disturbi legati all’assunzione di cibo.
(ci tornerò sopra)
“A few minutes later, he drops me off at my house. Half a block ahead, he stops at a Lake Street red light. A left up lake leads back to late-night Minneapolis; a right is the way home to the suburban purple house and solitude. Prince turns left, back toward the few still burning night lights of the city he’s never left”
(qualche minuto dopo mi deposita davanti casa mia; mezzo isolato più in là si ferma al semaforo di Lake street; il lago a sinistra riporta verso la Minneapolis della tarda notte, a destra c’è la strada di casa verso la casa viola in periferia e verso la solitudine; Prince gira a sinistra, di nuovo verso le poche luci notturne ancora accese della città che lui non ha mai lasciato)
Fonti:
- Neal Karlen, “Prince talks”, Rolling Stone, 1985