YOU ARE THE ARTIST

 

“THIS TOWN IS MY FREEDOM”

PRINCE: A WONDERFUL TRIP

 “Cosa sei andata a fare fino a Minneapolis?”

“Sono andata a cercare l’uomo, certo non la star!”

COMING SOON ⬇️

PRINCE: HE’S BACK!

Blue Darkness

 

“Mettiti qui, vicino a me!” – mi dici, battendo il palmo della mano sul prato, dopo esserti seduto. 

“Eccomi, arrivo subito” – dico, mentre mi avvicino.

Poggio in terra la borsa. Mi siedo a gambe incrociate. L’erba è morbida. Profumata. Piccoli fiori gialli, ovunque. Un minuscolo ragno si sta arrampicando su uno stelo, che si piega, leggermente, sotto il suo peso.

Mi guardo intorno.

Guardo il grande prato verde che mi circonda. Il ciuffo di alberi in cima alla collinetta che ci sovrasta. Il lago Riley, più in basso. L’acqua di un blu profondo, quasi nero.

 

(il capitolo continua, all’interno del libro in preparazione)

CHI SIAMO

 SKIP, aka ALEXANDER NEVERMIND, aka JAMIE STARR, aka PETER BRAVESTRONG, aka Love Symbol, aka The Artist, aka…

(È sempre lui):

Prince Rogers Nelson

 Maria Letizia Cerica: prinsologa dilettante e semplice voce narrante,  in queste pagine

MLC

l'ideatrice di questo blog

 Sempre lui : Prince Rogers Nelson

PRN

Impossibile farne una descrizione in breve: per saperne di più, scendete nella pagina ⬇️

PURPLE PILLS

STORIE, FRAMMENTI,RECENSIONI, IMMAGINI, VIDEO: TUTTI SU DI LUI, PRINCE ROGERS NELSON, IL NOSTRO SKIP, RACCONTATO NELLA SUA DIMENSIONE UMANA E TERRESTRE

Across the street from McDonald’s, Prince spies a smaller landmark. He points to a vacant corner phone booth and remembers a teenage fight with a strict and unforgiving father. ‘That’s where I called my dad and begged him to take me back after he kicked me out’- he begins softly – ‘He said no, so I called my sister and asked her to ask him. So she did, and afterward told me that all I had to do was call him back, tell him I was sorry, and he’s take me back. So I did, and he still said no. I sat crying at that phone booth for two hours. That’s the last time I cried’

(Neil Karlen, “Prince Talks”, Rolling Stone, 1985)

PERCHÉ QUESTO BLOG?

 Proviamo a raccontare un uomo straordinario, un artista visionario, un essere enigmatico: quello che è stato per tutta la sua vita Prince Rogers Nelson. Irrealistico anche solo pensare di riuscire a dire tutto di lui, a raccontarlo, a circoscriverlo in qualche modo, a definirlo in ogni sua parte. Qui dunque spargeremo solo frammenti, curiosità, gusci d’uovo, che cercheranno di dare un’idea di quello che è stato, di quello che ha rappresentato. Per tutti noi. Per quasi 40 anni. E oltre.

...have a purple day...

PURPLE PILLS

(ideato e realizzato da Maria Letizia Cerica) (con abbondanti e generosi interventi dall'alto) ⬆️

PURPLE PILLS: interviste/articoli

Eye-liner

“C’est ce qu’ont bien compris ces animaux artistes qui se maquillent, les humains. Certains motifs du maquillage ne sont pas de pures inventions de l’imagination humaine, des créations arbitraires: ils sont bio-inspirés. Ils accentuent les pouvoirs éthologiques du survisage humain, ils stylisent encore nostre masque animal.

Les deux cas le plus nets sont justement deux amplifications de contraste pour accentuer l’intensité du regard.

La première technique est l’eye-liner. En accentuant le contraste entre pupille et fond de l’œil par l’ajout d’une enceinte féline sombre, il mime la profondeur du regard de la panthère (elle dispose de naissance de cette ligne noire autour de l’œil).

C’est exactement la même structure sombre/clair/sombre qu’utilise le masque naturel du loup.

Hommes et femmes de théâtre fardent de nuit le tour de l’œil avant de monter sur scène: ils savent depuis toujours que cela en accentue l’expressivité.

Mais cette technique a été inventée par l’evolution des millions d’années avant les acteurs, par la lignée des grands félins, comme par d’autres.

L’eye-liner trouve son origine historique dans la poudre de khôl qui fardait les yeux des Égyptiens des deux sexes. Cette filiation est un indice, un détail révélateur d’une filiation plus profonde, qu’on peut pister jusque dans nos salles de bains.

L’Égipte antique était familière des métis d’animaux et d’humains (avec ses dieux thériantropes, à têtes de fauves, d’oiseaux, de serpents…)

Cette culture antique était aussi familière des survisages de la panthère et de l’antilope: c’était leur faune quotidienne.

Et c’est de l’Égypte antique qui provient une part de notre tradition du maquillage des yeux: dessiner le tour de l’œil, comme on le voit sur les fresques, et probablement aussi assombrir les cils.

Il n’est pas imprudent de conjecturer que le trait de khôl égyptien, donc l’eye-liner, est une technique bio-inspirée qui confère volontairement à l’œil humain l’intensité du regard de la panthère. Une technique qui capture le même amplificateur de contraste que l’évolution a peint sur le survisage de grands félins.

Dans une culture où votre déesse a une tête de lionne, où les animaux ne sont pas des bestioles mais des divinités, prendre leur survisage pour modèle dans l’apprentissage d’une expressivité intensifiée fait parfaitement sens.

Jusqu’à aujourd’hui, même les plus obtus ressentent douloureusement la puissance esthétique d’un survisage de panthère.

La tradition antique y a puisé des leçons de beauté, au sens vivant: la beauté comme manière d’habiter une forme.”

Fonte: Baptiste Morizot, “Manières d’être vivant”, Actes Sud, 2020

LA VITA È FATTA DI FRAMMENTI

Frammenti, validi come premessa

Ho sempre ammirato quelli capaci di creare/vedere grandi sistemi, rispetto al mondo circostante. Quelli che riescono a far coincidere tutti i pezzi della loro cosmologia e tutto il loro universo, una volta completato il lavoro, arriva ad assumere connotati netti e precisi. Ascissa, ordinata. Tutto in ordine.

Non sono mai riuscita ad essere così.

Riesco a fissarmi solo sui particolari. L’universale da sempre mi sfugge.

Spesso anche i particolari – nel particolare – mi sfuggono: nel senso che riesco a focalizzarmi sui frammenti, sulle briciole. Passo ore ed ore a guardare le briciole di realtà, analizzandole a volte in modo ossessivo.

Se mi innamoro di un libro, di un film o di una serie, sono capace di guardare e riguardare decine, centinaia di volte una pagina, una scena, l’inclinazione di un viso, una risata, l’intonazione di una voce, come se tutte queste cose – assolutamente slegate dalla visione d’insieme di quell’opera – potessero improvvisamente spiegarmi il senso della vita.

Da quella briciola pretendo di arrivare alla visione d’insieme.

Penso che sia la strada più sbagliata per arrivare al panorama finale. Scendo verso il basso del mio personalissimo Mont Ventoux, sperando di arrivare a vedere un panorama elevato che avrebbe richiesto ben altra strada, ben altro coraggio visivo.

Metto insieme questi pezzi slegati tra loro, nell’assurda speranza che essi possano indicarmi la giusta via.

Sto lì ad accantonarli, li allineo – uno vicino all’altro – sperando che una bella mattina, dopo essermi alzata da un sonno ristoratore, l’illuminazione arriverà, subito dopo essermi stropicciata gli occhi.

Ecco perché non mi riesce di costruire vere storie. Non riesco ad inventare personaggi: riesco a parlare solo di quelli che esistono già e che – a mio parere – costituiscono un campionario sufficiente per uno scrittore.

È già tutto lì: basta armarsi di pazienza ed osservare, ascoltare, trascrivere. La realtà parla da sola.

Lo so, l’eterno dilemma: se l’artista sia specchio o lampada.

Sono specchio o lampada? Un fiammifero, forse.

Ho quaderni pieni di osservazioni sparse, scritte a mano su quaderni bellissimi (quelli sì).

Osservazioni che dovrebbero essere trascritte, riordinate, cercando di dare loro un verso.

E mentre so che questo sarebbe il lavoro a cui dare priorità, mi metto a scrivere una premessa come questa, all’interno della quale prometto di fare ciò che continuo a rimandare.

(e sempre a Petrarca torniamo: ai suoi buoni propositi irrealizzati)

Ma le premesse – si sa – sono bussole indispensabili. Per capire. Per orizzontarsi. Per procedere.

 

PICS FROM MPLS

Stanze del Midwest
...nove ore di viaggio, una notte che nella tua testa non lo è affatto e ti ritrovi a guardare fuori dalla finestra: ti ricordi all'improvviso che sei su un'isola, che quell'isola è in mezzo al Mississippi e che sei nella città di Skip...
Stanze del Midwest
Ed è guardando da quelle persiane che scopri per la prima volta il Mississippi, nella sua grandezza
Il Ponte 1
L'isola in mezzo al Mississippi è collegata alla terraferma da un antico ponte in ferro e legno. Da lì si vede scorrere l'acqua, destinata a percorrere migliaia di chilometri
Il ponte 2
Tra l'isola e la terraferma c'è questo ponte in ferro e legno. Sotto, scorre il Mississippi, placido, limaccioso. Lo osservi, mentre passa sotto i tuoi piedi, trascinandosi dietro qualche tronco raccolto durante il cammino.
Hennepin Bridge
Hennepin Bridge ha un carattere quasi metafisico: fa un salto acrobatico sul Mississippi e ti permette di guardarlo dall'alto, da spettatore minuscolo che immagina contemporaneamente anche altre presenze, oltre alla sua, in altri momenti, in altri tempi
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A LETTER

Dearest Tracy,

thank U 4 your letter. It’s a good feeling 2  know that one’s work is appreciated by others. It’s the main thing that keeps me working. And if I ever make a video with 10-year olds in ’em, you’re invited. (smile)

I would love a picture of you. Don’t worry about what they look like. I take bad pictures all time. I hope U like Purple Rain, it’s a good movie. But, don’t listen 2 the swear words.

Happy birthday, and don’t forget 2 say your prayers. God loves you.

Your Purple friend,

Prince”

...searchin' & findin' Skip in MPLS... (part I)

…sentire scorrere l’acqua, il potere calmante dell’acqua, avere a così breve distanza, praticamente a portata immediata di sguardo, una massa tanto imponente di acqua in continuo movimento, ha avuto su di me un forte potere ipnotico: sono andata di continuo a vederla. Solo chi è cresciuto accanto all’acqua può capirne il fascino irresistibile…

Have a Purple Day

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PILLOLE VIOLA CHE PARLANO DI LUI – DI SKIP – DEL SUO MONDO, DELLA SUA MUSICA

Alphabet St.

PILLOLE VIOLA

RANDOMLY GRABBED POSTS

NEAL + PRINCE:A TRIP IN&OUT A (BOY)MAN (IVparte)

Era una persona complessa. Sicuro. Sicurissimo.

Prince aveva una personalità difficile da comprendere, per chiunque, ad un primo sguardo. Ad uno sguardo superficiale. Specie per chi lo vedesse/incontrasse per la prima volta.

(i pochi autorizzati ad entrare all’interno della sua zona di rispetto e solo per il tempo strettamente necessario, ovviamente, e niente di più)

Come molti di noi – egli possedeva molti strati disposti sotto la sua superficie, ma non permetteva a nessuno di scavare là sotto.

Non lo ha mai permesso a nessuno.

Si celava a tutti, dunque.

Mostrava sempre e soltanto quello che ritenesse utile mostrare in quel momento. Niente di più. E mai troppo a lungo.

In questa intervista che concede nel 1985 – dopo anni di silenzio stampa – a Neal Karlen di Rolling Stone egli decide di sembrare abbordabile. Un ragazzo qualunque, arrivato al successo dopo una serie infinita di dolori e difficoltà.

(la pura verità, a dire il vero)

Uno che fa una vita regolare, fatta di lavoro e lavoro.

(il che è perfettamente vero)

Voleva allontanare ogni diceria sui suoi comportamenti bizzarri ed eccolo lì: il ragazzo della porta accanto, timido, ma accessibile.

(il che è anche – altrettanto e assolutamente – vero, sotto un certo punto di vista)

Questa intervista – come ho sottolineato più volte – è una sorta di unicum. Pochi sono riusciti ad avvicinarlo e ad affiancarlo nel modo in cui Neal Karlen ha potuto fare in quell’occasione. Passando così tante ore con lui. Guardandolo muoversi davanti a lui, senza la mediazione di staff e di assistenti personali.

Prince viveva di distanza.

(continua nella sezione articoli)

The Purple House

TALKING ABOUT SKIP

IL MIO ULTIMO LIBRO: "THE BEAUTIFUL PRINCE" (LUGLIO 2022)

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Have a Purple Day

A NEW NEW NEW STORY!

he's back!

PAGE ONE ONE

“Il tuo passato immaginato da me, il nostro supposto futuro” “C’è un tipo di rapporto, l’unico durevole, in cui è come se tra due esseri umani corresse un invisibile filo telegrafico. Dentro di me lo chiamo: ‘Il filo d’oro’ ” “Tutto ho raccolto di te briciole, frammenti, polvere, tracce, supposizioni, accenti restati in voci altrui, qualche grano di sabbia, una conchiglia, il tuo passato immaginato da me, il nostro supposto futuro, ciò che avrei voluto da te, ciò che mi avevi promesso, i miei sogni infantili, certe sciocche rime sulla giovinezza, un papavero sul ciglio di una strada polverosa” (coming soon)

PAGE TWO TWO

Gràphein, Oràn, Èchein “Cara signora Milena, la pioggia che durava da due giorni ed una notte è appena cessata, forse soltanto provvisoriamente, ma è certo un avvenimento degno di essere festeggiato ed io lo faccio, scrivendo a Lei” “Franz, sbagliato, F sbagliato, Tuo, sbagliato, non più, silenzio, bosco profondo” (coming soon)

SENDING/FINDING LOVE

To: Skip, somewhere-nowhere From: (It’s) me Object: need help&(possibly)love:right now! please-please-please, come here! Caro Skip-del-mio-cuor, here we are. Lo so. Sei lì da un po’, a prendere il sole, nel Giardino. Beatamente. Non vuoi seccature e - credimi - ti capisco benissimo. Le persone come me sono una bella rottura di maroni, come glisserebbe - e con ragione - mio figlio. Però. (coming soon)

IPSE DIXIT: CRUMBS FROM HIS INTERVIEWS

IPSE DIXIT

"Once I made it, got my first record contract, got my name on a piece of paper and a little money in my pocket, I was able to forgive. Once I was eating every day, I became a much nicer person" (1985)
MUSICIAN: And what’s your last name? Is it Nelson? PRINCE: I don’t know. (1983)
About Minnesota: “I was born here, unfortunately.” (1977)
"I believe in teachers, but not for me" (1979)
About concerts: “I really don’t have time to make the concerts" (1977)
“Do you get out much?” “No. Not really.” “What age range of young ladies do you like?” “It doesn’t matter.” (1979)
About studying music: "I’ve had about two lessons, but they didn’t help much" (1977)
"We won’t be able to use that. I hate wasting time. I want to hear that song on the radio" (1977)
About music:“I wanted to make a different-sounding record" (1977)
first time he saw his father performing on stage (Prince was a 5 years old boy): "He was up on stage and it was amazing. I remembered thinking, ’These people think my dad is great.’" (1982)
"I think society says if you’ve got a little black in you that’s what you are. I don’t" (Musician, 1983)
About being a performer: "I wanted to be part of that" (1977)
PRINCE: Probably take a long bath. I haven’t had one in a long time. I’m scared of hotel bathtubs. (‘quale sarà la prima cosa che farai, quando tornerai a Minneapolis?’) (‘con ogni probabilità, un lungo bagno, non ne ho fatto uno per parecchio tempo, mi spaventano le vasche da bagno degli hotel’) MUSICIAN: What do you fear? PRINCE: They just...a maid could walk in and see me.
About school: "To this day, I don’t use anything that they taught me. Get your jar, and dissect frogs and stuff like that" 1983

MY PODCASTS ABOUT HIM

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LAST STUFF

#15 The Love We Make

Prince touches my spirit in so many of his precious songs! Love you forever, my brother in Christ! On this Sunday evening! Thank you our Jesus! I love you so much! Amen!

(commento postato da Anita, sotto un video che propone un live di questo brano, su YouTube)

 

 

Chi vede solo il lato iconoclasta di Prince, perde una parte importantissima del suo mondo.

Quella forse più rilevante. 

Chi lo conosce bene, lo sa bene. Prince non era solo “Darling Nikki” o “Head”: il suo mondo era molto più stratificato e complesso.

La dimensione spirituale, infatti, era per lui forse quella più importante. In particolare a partire dagli ultimi anni Novanta, ma, a ben guardare, lo è stata sempre.

Sempre. 

Spesso è stata vissuta con fastidio da chi non riusciva a conciliare due facce tanto distanti, così contrastanti, tra loro: troppo semplice dare spazio solo al lato della provocazione. 

Il suo amore per Dio (che tornava di continuo nei testi, nelle note di copertina, nelle sue foto, sul palcoscenico) era vissuto da alcuni come un granello di polvere sotto le palpebre: dava noia e non vedevano l’ora di toglierlo via.

Non si poteva toglierlo, però, senza snaturare la sua intera produzione.

E l’aspetto provocatorio, quello dissoluto, andavano e vanno di pari passo con i momenti in cui Prince parla di Dio, di spiritualità.

Riusciva a conciliare molto bene gli opposti, forse anche meglio di Hegel. 

Semplicemente, e più prosaicamente, se ne fregava del fatto che i critici avrebbero preferito da lui solo canzoni che parlavano di sesso ed edonismo, facendo finta che non esistesse anche roba come questa: egli era la sintesi perfetta di quegli opposti.

Chi preferiva una sola parte del suo mondo, rischiava dunque di uscirne fuori senza avere capito proprio nulla di quel suo mondo.

Questa canzone sta lì a dimostrarlo.

Arriva da un album complesso, con una gestazione complessa: Emancipation.

L’anno più importante e tremendo, nella vita di Prince: 1996.

L’anno del suo matrimonio con Mayte, l’anno di Amir, l’anno della sua emancipazione dal contratto Warner.

Da qui, dalla libertà conquistata dopo la schiavitù, il titolo dell’album e l’immagine di catene da schiavo che si spezzano sulla copertina.

(non si era forse fatto fotografare migliaia di volte, negli anni precedenti, con quella scritta “slave” impressa come un marchio su una delle sue guance?)

Prince amava molto questa canzone: l’ha eseguita spessissimo, anche nel corso del suo ultimo tour, “A piano and a mike”, nel febbraio del 2016, ad Oakland, nel corso del primo spettacolo.

Una linea di continuità importante, perché ci sono canzoni che non ha mai eseguito in pubblico ed altre messe nel dimenticatoio dopo un solo tour.

Alla base di questo brano c’è l’eco di un evento drammatico: la morte di Jonathan Melvoin, fratello di Wendy e di Susannah Melvoin, che così tanto avevano contato nella vita di Prince, ai tempi di “The Revolution” e non solo.

Jonathan Melvoin

Jonathan Melvoin era, come le sue sorelle e anche suo padre, un musicista. Aveva suonato come batterista per gli “Smashing Pumpkins”.

Da ragazzino aveva partecipato a qualche incisione di Prince, suonando le percussioni – una volta i piattini a dita – nel periodo compreso tra Purple Rain e Parade.

Parlando di questa canzone Prince ha spiegato che aveva voluto“speak to the spirit of a friend lost to drugs”, perché Jonathan era morto per overdose nel luglio 1996.

(la vita possiede vie misteriose ed ironiche, in alcuni casi: perché, con questa canzone, Prince ha messo in mostra il suo lato intransigente, a proposito di tossicodipendenze, proprio lui che sarebbe morto per una dipendenza da oppioidi esattamente venti anni dopo)

Di sicuro questo brano viene creato ed inciso successivamente al mese di luglio di quel 1996 e Prince mette giù da solo tutte le tracce strumentali, ad eccezione di una sovraincisione alla chitarra,  eseguita da Kathleen Dyson.

La pagina 365princesongsinayear ha analizzato le genesi ed i risvolti di questa canzone. Ecco cosa emerge in proposito.

Jonathan Melvoin era stato un talento precoce e prodigioso, – un po’ come Prince –  e, a quanto pare, la sua morte legata alla droga aveva colpito Prince in modo particolare.

Nelle note di Emancipation troviamo questa annotazione: “written 4 a lost friend”. 

Nel testo, il passaggio “put down the needle/ put down the spoon” allude proprio all’uso di eroina, ai pericoli ed al male che tutto questo rappresentava, specie in quegli anni Novanta, per le persone.

In quel momento Prince era in prima linea nella condanna degli abusi di droghe. 

Era intransigente ed applicava in modo inflessibile questa sua intransigenza alle persone che lo circondavano o che lo avevano circondato.

Lo sottolinea – con una profonda amarezza ed una venatura di sarcasmo – anche Wendy Melvoin, che, a quanto pare non ha affatto apprezzato il punto di vista sostenuto da Prince in quegli anni, in fatto di droghe.

Of course, avoiding drugs – or shaking the habit once it’s been acquired – isn’t always as easy as a song, as Prince himself sadly discovered later in life. The fact that his own death was intertwined with illicit opiate use adds a sad postscript to the story of “The love we make”, one that definitely wasn’t lost on Jonathan sister Wendy” – osserva la pagina 365princesongsinayear.

(“Ovviamente, evitare le droghe – o eliminare la dipendenza, una volta acquisita – non è sempre facile come fare una canzone, come lo stesso Prince ha scoperto tristemente più avanti nella vita. Il fatto che la sua stessa morte sia stata connessa all’uso illecito di oppiacei aggiunge un triste poscritto alla storia de “The love we make“, un aspetto che sicuramente non è stata lasciato andare dalla sorella di Jonathan Wendy”)

Ecco, infatti, cosa ha detto Wendy. Ha usato parole davvero dure con Prince, subito dopo la sua morte:

I have a deep empathy and compassion for the pain he was in, yes. And do I understand how something tragic like that could happen? Yes. I lost my brother to something similar. And I have many friends that have had serious problems with physical pain and, oops, something happens, right? So that part I understand. But when I reminisce or become nostalgic or sentimental, that brick wall of absolutism hits me smack in the face and it’s an incredibly painful feeling. When you think about the fact that someone is ever going to be on your doorstep again, it’s ridiculous”.

(“Provo una profonda empatia e compassione per il dolore che stava provando, sì. Capisco come sia potuto succedere qualcosa di tragico come questo? Sì. Ho perso mio fratello per qualcosa di simile. E ho molti amici che hanno avuto seri problemi con il dolore fisico e, oops, succede qualcosa, giusto? Quindi quella parte la capisco. Ma quando ricordo o divento nostalgica o sentimentale, quel muro di mattoni dell’assolutismo mi colpisce in faccia ed è una sensazione incredibilmente dolorosa. Quando pensi al fatto che qualcuno non sarà mai più davanti alla porta di casa tua, è ridicolo”)

Evidentemente Wendy non ha perdonato a Prince quella sua rigidità. 

(troppo facile essere intransigenti da una posizione di forza, ma questo, Prince ancora non lo sapeva)

Troppo facile rispondere che egli era fatto così: le sue affermazioni senza mediazione possibile, i suoi strali pungenti, facevano spesso molto male alle persone contro cui egli li dirigeva.

E non tornava indietro, come sappiamo, rispetto a ciò che diceva.

Vediamo dunque il testo di questa canzone

La prima strofa ha un carattere biblico: lo è nei toni, lo è nella scelta delle parole.

Desperate is the day/ that is tomorrow/ for those that do not know/ the time has come to whip the dogs that beg, steal or borrow for the table God set for his son.

È senza speranza il domani di coloro che non sanno che è arrivato il momento di frustare i cani che mendicano, rubano o prendono in prestito per la tavola che Dio ha apparecchiato per suo figlio.

Arriva poi – subito dopo – un’allusione evidente (Emancipation ne è pieno) a tutti coloro che, in quegli anni, erano restati in attesa di una caduta rovinosa di Prince, dopo la combattuta rescissione del contratto con la Warner. I suoi nemici, quelli che irriderà in  modo corrosivo dentro “Face down”.

Wicked is the witch/ that stands for/ nothing/, all the while /watching see you fall/ deeper than the ditch/ that bred your /suffering/ the one being dug /right now by them all”.

(a chi alludeva Prince con l’espressione “wicked witch”, la strega malvagia che sta lì a guardare qualcuno che sta precipitando nel fossato? e chi sono quelli che continuano a scavare per rendere più profondo il fossato?)

Segue ancora una serie di riferimenti autobiografici-agiografici:

Happy is the way/ to meet your burdens/ no matter how heavy/ or dark the day/, pity on those/ with non hope for tomorrow/, it’s never as bad as it seems/ until we say”.

Il confronto con i propri limiti, con i propri problemi, anche pesantissimi, in alcuni casi è di fondamentale importanza, ci dice. Anche il giorno più buio può riservare risvolti importanti.

Nel ritornello/bridge ritorna un’immagine assai ricorrente in Prince: quella della madre rassicurante, posto immediatamente accanto al tema della salvezza, del Salvatore, altra immagine che ricorre spesso con lui, sia in questo album che in altri.

Precious is the baby/ with a mother/ that tells him that his/ savior is coming soon/, all that believe will/ cleanse and purify/themselves”.

(un riferimento alla maternità – questo – che poteva alludere anche al bambino che Mayte stava aspettando in quei mesi: Amir)

Ed è in questo passaggio che si ritrova il verso, per così dire, “incriminato”:

Put down the needle/, put down the spoon”, ripetuto due volte.

Buttare via l’ago, buttare via il cucchiaio: come se fosse facile e semplice fare una cosa del genere. 

(chissà se gli sarà tornato mai in mente, ripensando alla sua stessa tossicodipendenza)

Nell’ultima parte ritorna ad immagini sacre. Evangeliche. Che riecheggiano anche il tono “ispirato” di alcune interviste che Prince andava rilasciando in quel periodo. 

Dichiarazioni in cui parlava di pace, di serenità con toni pacati, almeno nelle parole.

Sacred is a prayer/ that asks for nothing/, while seeking to give /thanks for every/ breathe we take”.

La preghiera davvero sacra è quella in cui non si chiede nulla, ma si rende grazie a Dio per ogni respiro che si fa.

Il passaggio conclusivo – ripetuto due volte – a me pare anche quello più significativo dell’intera canzone, anche se non risulta particolarmente originale. 

È il linea con il Prince-pensiero di quei mesi del 1996, anche se collideva pesantemente (in alcuni casi) con la Prince-persona, che, come abbiamo visto e come ho raccontato anche nel mio recente libro su di lui, riusciva ad essere tutto tranne che un adepto-praticante della spiritualità e della tolleranza. Della pace.

Blessed are we inside/ this prayer/ for in the new world/ we will be there/, only love there is, is/ the love we make”.

In fondo, noi siamo solo l’amore che siamo capaci di creare.

E qui, aveva perfettamente ragione.

 

 

Fonti:

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marialetiziacerica

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Lillian Morgan

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