L’uscita di Dirty Mind ha rappresentato una vera e propria cesura nella carriera di Prince, agli inizi degli anni Ottanta. Quasi tutti i giornalisti, nelle interviste di quei mesi, cercano di esprimere come meglio possono lo sconcerto che questo album aveva generato intorno a sé.
Nessuno, fino a quel momento, aveva mai osato tanto. A livello di immagine, a livello musicale. Ad ogni livello.
Un disco davvero scandaloso, a detta di tutti, Dirty Mind.
Le radio rifiutavano di trasmettere quei brani tanto provocatori. Prince, anche sul palco, nel corso delle sue esibizioni, recitava ed impersonava fino in fondo questa sua metamorfosi inaspettata, esibendosi vestito solo di un impermeabile, sotto al quale indossava quello che avrebbe potuto essere tanto un costume da bagno nero, quanto un indumento intimo, sotto cui erano visibili calze autoreggenti, anch’esse nere. Al collo, quasi sempre, un foulard rosso.
Il pubblico dei fan era letteralmente in delirio per questa svolta imprevista e rivoluzionaria. Era esattamente quello molti che stavano aspettando da tempo. Senza saperlo. È sempre stata proprio questa la forza di Prince: capire prima di tutti la direzione da prendere, anticipando le tendenze, quasi sempre. Scandalizzando, molto spesso. Per molto tempo le cose sono andate proprio così.
Nel corso di una intervista del 1981, Bill Adler, giornalista di Rolling Stone, ci dà una lettura già molto chiara del giovane ragazzo che ha di fronte.
“(…) Prince is androgyny personified. Slender and doe-eyed, with a faint pubescent mustache, he is bare-chested beneath a gray, hip-length Edwardian jacket. There’s a raffish red scarf at this neck, and he’s wearing tight black bikini briefs, thigh-high black leg-warmers and black-fringed go-go boots. With his racially and sexually mixed five-piece band churning out the terse rhythms of “Sexy Dancer” behind him, the effect is at once truly sexy and more than a little disorienting, and his breathy falsetto only adds to his ambiguity – for sheer girlish vulnerability, there’s no one around to touch him (…).
(sembra quasi di vederlo)
(…)
Tra le righe delle dichiarazioni escono fuori anche alcune ammissioni importanti da parte di Prince sul suo milieu familiare. Tutti temi che sarebbero presto scomparsi dall’orizzonte delle sue interviste. Banditi per sempre. Per volere dello stesso Prince. In questo momento occhieggiano ancora qua e là notizie sulla sua infanzia e sulla sua difficile adolescenza. Con una abile mescolanza tra vero e falso.
‘I grew up on the borderline’ – Prince says after the show – ‘I had a bunch of white friends, and I had a bunch of black friends. I never grew up in any one particular culture’ The son of a half-black father and an Italian mother who divorced when he was seven, Prince pretty much raised himself from the age of twelve, when he formed his first band. Oddly, he claims that the normalcy and remoteness of Minneapolis provided just artistic nourishment he needed.
(nei suoi primi anni Prince ha dato spesso l’impressione di non volere essere considerato parte della black culture: non si trattava di un rifiuto vero e proprio delle radici, da parte sua, su di lui agiva piuttosto il timore di essere incasellato e fissato all’interno di generi musicali specificamente black, che lui sentiva come soffocanti e limitanti; in poche parole: voleva essere libero di spaziare in ogni stile musicale)
(per molto tempo avrebbe anche fatto circolare la voce di avere una madre per metà italiana: notizia falsa, ovviamente)
(verissima invece la notizia di un ragazzino di appena dodici anni del tutto abbandonato a se stesso dalla sua famiglia)
(…)
‘The white radio stations were mostly country, and the one black radio station was really boring to me. For that matter, I didn’t really have a record player when I was growing up, and I never got a chance to check out Hendrix and the rest of them because they were dead by the time I was really getting serious. I didn’t even start playing guitar until 1974’
(non sono del tutto esatte le cose che dice: certo, Hendrix era già morto quando Prince, tredicenne, aveva iniziato a suonare la chitarra, ma a partire dal 1971 lui e Sonny T. ammiravano e studiavano già la musica di Hendrix, dal momento che molto spesso si incontravano dopo la scuola per ascoltare i suoi dischi, studiandone a fondo la tecnica, cercando di assorbirla)
(Prince ha molto spesso minimizzato – con ragione, a detta di molti – i suoi rapporti con la musica di Hendrix: lo stesso Sonny T., in una intervista degli anni Novanta, ha messo in evidenza le differenze tra i due stili, confermando sostanzialmente il punto di vista di Prince)
(…)
Prince says he ‘took a lot of heat all the time. People would say something about our clothes or the way we looked or who we were with, and we’d end up fighting. I was a very good fighter’- he says with a soft, shy laugh – ‘I never lost. I don’t know if I fight fair, but I go for it. That’s what ’Uptown’ is about, we do whatever we want, and those who cannot deal with it have a problem within themselves’
(quando non hai soldi per vestirti e/o per mangiare diventi anche molto suscettibile in proposito: evidentemente, poi, ti ritrovi anche a fare a botte alla minima provocazione; il senso di inferiorità sofferto da ragazzo è stato infatti a lungo una zavorra per Prince, anche se, per alcuni versi ha fornito anche carburante alla sua voglia di emergere)
(…)
Dirty Mind, however, was made in isolation in Minneapolis. ‘Nobody knew what was going on, and I became totally engulfed in it’ – he says – ‘It really felt like me for once’
The result of this increased freedom was a collection of songs celebrating incest (“Sister”) and oral sex (“Head”) in language raw enough to merit a warning sticker on the album’s cover.
‘When I brought it to the record company it shocked a lot of people’ – he says – ‘But they didn’t ask me to go back and change anything, and I’m real grateful. Anyway, I wasn’t being deliberately provocative. I was being deliberately me’
(la realizzazione di Dirty Mind ed il racconto che ne dà Prince al giornalista possiedono qualcosa di davvero epico, anche se, a dire il vero, non tutto è filato liscio come appare dalla narrazione ufficiale)
(…)
‘I ran away from home when I was twelve’ – Prince says – ‘I’ve changed address in Minneapolis thirty-two times, and there was a great deal of loneliness. But when I think about it, I know I’m here for a purpose, and I don’t worry about it so much’
(emerge – inaspettata – una raffica di notizie importanti e, soprattutto vere: la fuga da casa, le peregrinazioni continue da una casa all’altra, da una famiglia all’altra, quella parola – loneliness – che pesa come piombo, perché racconta, in filigrana, di una sofferenza intollerabile per un ragazzino di quell’età)
(e poi il suggello finale: so di essere qui con uno scopo e non me ne preoccupo più di tanto)
Il senso della missione da compiere. La ghianda sa già della grande quercia che diverrà.
Fonte:
Bill Adler, Rolling Stone, 19 febbraio 1981
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