#13 Still Would Stand All Time
Nella vita di ognuno di noi (tutti noi, geni compresi, Prince compreso) capita di prendere cantonate.
Più di una, sovente. A volte, addirittura in loop.
Le cantonate sono gli schiaffi che la vita ci dà, per farci capire qual è la lezione che ne dobbiamo trarre.
A volte arriviamo a realizzare che buona parte della responsabilità di quell’errore è nostra, altre volte preferiamo (perché è più comodo) addossare al mondo esterno le colpe di quel nostro scivolone.
Esistenziale. Professionale. Personale.
In quanto essere umano (umanissimo), Prince non poteva sfuggire a questa regola, che vale davvero per tutti.
“Graffiti Bridge”: un brutto scivolone della sua carriera, all’interno del periodo Warner. Forse quello più bruciante. Quello che lo ha toccato più nel profondo.
Quello che molto probabilmente ha fatto da catalizzatore di un potente effetto domino, nella sua carriera e nella sua vita.
Dopo il parziale insuccesso di “Under Cherry Moon” lo aspettavano all’angolo. Tutti. Davvero tutti. Pronti a colpire.
E lo hanno fatto (forse) con grande piacere e grande soddisfazione.
(i critici, musicali e cinematografici, i tanti nemici che egli era riuscito a crearsi negli anni)
Per quella débacle hanno gioito in tanti. Tantissimi. Hanno gioito, festeggiato. Lo hanno irriso e ridicolizzato.
Perché – in questo senso – lui era fatto così: era senza mezze misure e generava – in base al terzo principio fondamentale della dinamica emotiva – reazioni uguali e contrarie.
Lo si amava (alla follia) o lo si odiava fino allo spasimo, spesso con il risentimento acido di chi sa bene che non potrà mai raggiungere certi livelli. Che potrà guardarli sempre, solo e comunque dal basso.
Lui – va detto chiaramente e oggettivamente – non aveva preso bene quello scivolone.
Non aveva fatto autocritica, per quell’evidentissimo passo falso.(autocritica: parola espunta da tempo dal suo vocabolario, perché priva di contenuto concettualmente accettabile, all’interno della sua metafisica e anche della sua logica)
Aveva fatto – certo – rari accenni alla questione in qualche intervista, aveva utilizzato larghe, larghissime, perifrasi per indicare il mancato successo, ma poi, alla fine, aveva relegato e collocato il tema “Graffiti Bridge” al passato.
E lui – lo sapevano tutti – non rispondeva mai a domande sul passato.
Era passato e basta. Pensava solo futuro. Un progetto dopo l’altro.
E allora: mettiamo pure “Graffiti Bridge” in soffitta e non se ne parli più!
(leggi: rimozione)
Quelli del suo éntourage – se interrogati e incalzati sull’argomento da qualche incauto giornalista – si limitavano a rispondere (imbarazzati) che Prince non “era stato capito” da nessuno. Pubblico. Critici. Persino i fan.
«[…]il suo staff […] si sofferma sulle sue inclinazioni maggiormente spirituali, sul nucleo profondo della sua musica migliore e tratta il caotico, confuso “Graffiti Bridge” come uno sfortunato incidente che sarebbe meglio dimenticare. Non un fallimento – badate bene. Prince non genera fallimenti. […] Prince non ammetterebbe mai che “Graffiti Bridge” è stato un fallimento, incolperebbe semplicemente il mondo per non ‘averlo capito’» – scrive appunto Chris Heat nel novembre 1991.
(tempi davvero difficili per lui, quelli di quegli anni: era apparentemente in guerra contro tutto e tutti)
In quegli stessi mesi in cui aveva registrato questo brano, Prince aveva improvvisamente licenziato in blocco tutto lo staff di manager, che seguiva praticamente da sempre la sua carriera, ed aveva deciso di proseguire da solo.
È da questa sua furia demolitoria quasi improvvisa che – quasi a cascata – arriveranno le stringenti regole sulla riservatezza che da quel momento in poi avrebbe imposto a chiunque potesse entrare in contatto con lui.
Torniamo a questo brano, che – ovviamente – viene eseguito anche all’interno del film, in una lunga sequenza, ballata e cantata.
“Still Would Stand All Time” è anche la traccia numero 15 dell’album. Mai eseguita stabilmente nel corso di un tour, occasionalmente in qualche esibizione e, comunque, mai più, dopo il 2001.
(il titolo, visto così, senza guardare ai testi, fa pensare ai ritmi circadiani di Prince, che – letteralmente – non dormiva mai: sarebbe restato davvero sempre in piedi: a fare musica)
Due osservazioni (notizie) tecniche su questo brano: è stato eseguito con una base ritmica gestita in prevalenza da una LinnDrum (un modello successivo alla storica Linn LM-1 che aveva già fatto da ossatura a decine di sue canzoni.
All’interno della tessitura musicale, inoltre, troviamo quattro samples con un suono di flauto che arrivano dal “Prélude à l’Après-Midi d’un Faune” di Claude Debussy, nell’esecuzione curata da André Previn con la London Symphony Orchestra.
(quanto genio ci vuole per sapere che quei quattro passaggi consecutivi di flauto, messi lì apparentemente a caso, sono proprio la right thing, in quel punto della canzone?)
(eh, già, mai prendere sottogamba la musica di Prince: gli strati sono molteplici, ricchi e – soprattutto – capaci di sorprendere tutti: sempre)
“[…] le campionature di flauto di Debussy svolazzano dentro [il brano] ed il tuo cuore si gonfia di emozioni alle quali non sei in grado di dare un nome”- dice la pagina 500princesongs.com.
La registrazione è avvenuta – come accade quasi sempre con lui – a Paisley Park il 6 ottobre 1988. Nel corso di una pausa di due giorni del “Lovesexy Tour”.
(Susan Rogers ha ricordato più volte come Prince avesse l’abitudine di registrare anche quando era fuori in tour: affittava uno studio nella città in cui si esibivano, oppure si portava dietro un truck attrezzato, o, se la tappa del tour non avveniva lontano da Minneapolis, tornava a Paisley Park nei giorni di pausa per lavorare su qualche brano: “se era sveglio, voleva uno strumento in mano”- sottolinea Susan Rogers)
Prince ha suonato e cantato quasi tutto da solo qui, ad eccezione della parte corale.
In questi cori – sovraincisi alcuni mesi dopo – troviamo una ricca serie di nomi: Jevetta Steele, Fred Steele, JD Steele, Jearlyn Steele (gli “Steeles”, appunto), Jill Jones – sua storica collaboratrice e protegée degli anni Ottanta – Jellybean Johnson, Jesse Johnson, Jimmy Jam (il famoso Jimmy Jam, successivamente grande produttore di Minneapolis e grande nemico di Prince, perché da lui fatto licenziare dai “The Time” per una grave forma di “insubordinazione” rispetto agli impegni presi per una tournée) Monte Moir, Terry Lewis, Jerome Benton, tutti a supporto della voce di un uomo che normalmente era in grado di elaborare da solo, nelle sue canzoni, tessuti corali anche molto complessi, direttamente dal suo board di Paisley Park.
Sovraincidendo ed incollando in mille intricati modi la sua stessa voce.
Questo brano sarebbe dovuto entrare a far parte del primo progetto intitolato Rave Unto The Joy Fantastic, era stato poi tenuto in considerazione per Batman, ma era stato poi rimpiazzato da “Scandalous”.
Prima di portarlo in sala di incisione, Prince lo aveva fatto eseguire – il 19 agosto 1988 – durante una One-Off Performance in Olanda.
(per la cronaca: molti sanno che, frugando in Rete, è possibile avere tutti gli outfit di ogni suo singolo concerto di Prince e quella sera del 19 agosto egli ha alternato un set di abiti già utilizzati per la registrazione del video di “Alphabet St.”, mentre suonava la chitarra Blue Angel, insieme ad un tre pezzi color lillà)
L’autore della pagina 500songs.com racconta di come, negli anni della sua giovinezza, questo brano di Prince dalle radici evidentemente gospel non incontrasse in nessun modo il suo favore. Troppo sdolcinato. Troppo gospel.
È stato l’ascolto prolungato e attento – oltre allo scorrere degli anni – che gli ha permesso di entrare nel suo spirito. Di entrare in profondità.
E di arrivare ad apprezzare perfino quel gospel che – ad un primo ascolto superficiale – gli era sembrato quasi indigesto.
“I tocchi gospel (per gentile concessione degli Steeles) sono di natura divina, ma il vero potere sta tutto nell’atmosfera. Ha l’aspetto di un momento congelato: una campana a morto che risuona. O forse si tratta dell’imitazione della percezione rallentata del tempo e del battito cardiaco acuto dato da una scarica di adrenalina. […] la lunga pausa prima dell’annuncio del vincitore, una proposta di matrimonio che sta lì lì per arrivare” – arriva a scrivere alla fine.
Esiste un bootleg (Trojan Horse) in cui si sente la voce di Prince che rimprovera qualcuno che, nel cantare questa canzone ha sbagliato una parola importante del testo:
« “Chi è lo sciocco che sta cantando ‘will’? La parola giusta è ‘would’ !” » – dice.
(questo, per rimarcare – ancora una volta, se ce ne fosse bisogno – l’attenzione che, in particolare dal vivo, Prince metteva e chiedeva nella cura dei dettagli)
Entriamo nel testo.
Siamo negli anni immediatamente a ridosso del ripensamento. Quel ripensamento interiore che lo aveva portato a buttare al macero tutte le copie del Black Album e di incidere Lovesexy, un disco che si situava esattamente agli antipodi, rispetto al precedente.
Atmosfere luminose, temi e richiami all’amore, alla pace. Fine anni Ottanta-inizio Novanta: la conversione ad U della sua vita.
In questa canzone si parla di questo: si osserva la violenza, l’aggressività che caratterizzano spesso le nostre vite, per rifiutarle. Per indicare una strada diversa.
C’è – ma non potrebbe essere diverso, trattandosi di lui – una intensa atmosfera spirituale, concentrata.
Lo si nota anche se si osservano le scene del film in cui essa viene cantata. Se si ascolta la sottotraccia gospel in cui – in particolare – gli Steeles ci riportano ad una dimensione religiosa.
Sembra una preghiera. Sembra che il pastore debba entrare da un momento all’altro per recitare il suo sermone.
Circola un forte messaggio di speranza.
“È proprio dietro l’angolo, dietro l’isolato, questo amore che stavo aspettando, un amore solido [come] roccia” – esordisce.
“Un amore che vuole riaffermare che non siamo soli al mondo, un amore così luminoso che risplende dentro di te […]”
La speranza che le cose vadano meglio, la speranza che gli uomini capiscano che la persona che hanno accanto non è nemica. Che conviene allearsi, piuttosto che combattersi.
“Non è lontano mille anni, non è così lontano, fratello, il momento in cui gli uomini combatteranno l’ingiustizia, invece che combattere l’uno contro l’altro”.
E, poco più oltre:
“La disonestà, la paura, la gelosia e l’avidità cadranno tutte quante assieme. L’amore può salvarci tutti”.
L’apertura alla speranza, all’amore, dominano la parte conclusiva:
“Non siamo soli, gente. Ditemi: siete in grado di vedere la luce? Se solo voi apriste gli occhi”.
E, ancora:
“Meglio, se ti lasci alle spalle il passato: tutto andrà bene”.
E questo è un riferimento con un carattere marcatamente autobiografico, in un brano in cui la sua storia personale è già contenuta in filigrana.
Fonti:
– princevault.com
- Neal Karlen, “Prince Talks”, «Rolling Stone», 18 ottobre1990
- 500princesongs.com
- Intervista a Susan Rogers pubblicata su «tapeop.com»
- Chris Heat, «Details», novembre 1991
Devi accedere per postare un commento.