
“Rave is not of his best albums, but is actually a bit underrated by fans. There are definitely some good great songs on it.”
(commento postato nel 2019 su YouTube – “Prince’s Friends” – a proposito dell’intero album Rave Un2 the Joy Fantastic)
Questa canzone non è la migliore di Prince e nemmeno la migliore di questo disco, che (secondo “Rolling Stone”) nasconde pochi pezzi «sublimi», la cui qualità «supera l’album poco brillante che sta intorno a loro».
(album, nel suo insieme definito – sempre da da “Rolling Stone”- agli inizi dei Duemila «il peggiore dei suoi lavori degli anni Novanta» – “the worst of his Nineties work”)
Questa canzone, “Rave”, riesce – quasi da sola – a restituire l’immagine di un momento davvero freak della vita di Prince. Un momento di celluloide, della sua vita. Ed i suoi look di quei mesi stanno lì a dimostrarlo. Anche lui sembra fatto di celluloide.

Quello del passaggio Novanta-Duemila è stato un momento in cui non è tornato ad essere quello di dieci anni prima, ma non è ancora nemmeno qualcos’altro. Una crisalide bloccata – e da tempo – nel suo bozzolo.
Ci sono abiti di Prince che sono e restano di diritto nella storia del costume. Perché Prince non è stato solo un grandissimo musicista, ma anche uno dotato di grandissima sensibilità artistica, di intuizione profonda del gusto. Una specie di Arbiter Elegantiarum dei nostri tempi.
(“…e che arbiter!” – osserveremmo prontamente noi ragazze)
I momenti di passaggio della sua carriera sono stati quasi sempre sanciti da altrettante trasformazioni dei suoi look. Guardaroba, colori, acconciature. Taglio di baffi e barba.
Tutto studiato, tutto calcolato. Sempre. Minuziosamente.
(il trench di Dirty Mind, le giacche di Purple Rain, il bolerino nero corto, fotografato da Jeff Katz per Parade)
La tutina celeste metallizzato che è sulla copertina di Rave Un2 The Joy Fantastic.
(un ulteriore esempio)
Quella stessa che indossa in quelle settimane di fine 1999, mentre in testa porta quelle stupende treccine ed indossa gli occhiali scuri, a coprire il suo sguardo.

Quella tutina color-carta-da-regalo-plasticosa-kitsch che egli ha indossato anche durante il concerto di fine 1999 a Paisley Park, nel corso di quella notte che ci ha accompagnato sulla soglia del millennio che stava per iniziare.
“Rave Un2 The Joy Fantastic” è un brano funk elettronico-ipnotico. Una di quelle canzoni di Prince che un fan medio può mettersi ad ascoltare in loop, senza smettere mai e senza stancarsi. Perché lì c’è lui, la sua essenza.
È la prima canzone, nella track list dell’album. Per crearla, prima di metterla lì, The Artist si era rivolto ad un produttore di sua fiducia: Prince.
(non è uno scherzo: lo ha dichiarato in una intervista di fine 1999: secondo The Artist, solo Prince sarebbe stato in grado di ricreare certe atmosfere anni Ottanta-Novanta e dunque si era affidato a lui con assoluta fiducia)
(scissione psichica permettendo)
Quando si tratta delle canzoni di Prince/The Artist, però, bisogna fare sempre attenzione alle date. Quelle relative alle sessioni di registrazione.
“Rave”, sebbene pubblicata sull’album uscito nel 1999, era stata registrata a metà giugno del 1988. Più di dieci anni prima, dunque.
(e proprio da Prince – a dire il vero – prima che cambiasse il suo nome: dunque, The Artist non aveva mentito, a questo proposito, nell’intervista, perché c’era molto di Prince in quelle note, anzi, c’era tutto lui)
Aveva lavorato a lungo su quel brano, riprendendolo anche in sedute di registrazione effettuate in Inghilterra nel luglio del 1988.
In quello stesso periodo Prince si stava occupando della colonna sonora di Batman ed aveva pensato di utilizzare questa canzone come base per una scena. Poi era stata messa da parte.
(anche se dei frammenti di “Rave” arrivano comunque in quella colonna sonora: piccole cose)
“Se l’originale del 1988 non fosse venuto fuori (rivelando il fatto che è quasi identico [a questo] accetterei come valide teorie relative al fatto che fosse andato perso nel tempo e che la versione pubblicata ufficialmente nel 1999 fosse una sorta di ricreazione archeologica, composta da tutto ciò che potrebbe essere raccolto dalle sue tracce in altri brani, nei remix di 200Balloons e di Batdance.[…] Una ricostruzione scheletrica. Incredibilmente la canzone è sempre rimasta così magra ed ha perso solo pochi svolazzi prima della sua uscita all’inizio del millennio. […] Prince ha detto di aver lasciato questa canzone a ‘marinare’, perché pensava che fosse troppo simile a “Kiss”, ma continua a suonare ancora in anticipo sui tempi. Non sarei sorpreso dal fatto di venire a sapere che si tratta di un’opera d’arte aliena che viene riflessa dalla superficie del nostro pianeta”. – scrive 500princesongs.com.
“World full of lovers/ city full of good/times, rave”
(cosa si può desiderare di meglio? Una città piena di gente pronta ad amare, di bei momenti, diamoci giù con la voglia di fare pazzie!)

Si arriva al 1999, quando “Rave” viene rilavorata, parzialmente ri-registrata ed inserita nell’album al quale dà il titolo.
Suona tutto lui, ovviamente (come fa spessissimo) dall’inizio alla fine. La line di chitarra presente su Rave, è stata riutilizzata più volte, in altri contesti, anche molto diversi da questo.
(con Prince non si butta via mai nulla)
“Don’t go undercover/I can get you out of/your mind, come on/rave!”
(non mimetizzarti, se me ne darai la possibilità, io posso farti uscire dalla tua testa)
Questo brano non è stato eseguito con regolarità in nessuno dei vari tour: ha fatto capolino qua e là nei concerti e compare per l’ultima volta nel 2011, a Budapest.
«Earth-Moon-Earth, un’opera dell’artista scozzese Katie Patterson” – continua 500princesongs.com – “consiste in un pianoforte che suona da solo ed esegue ‘La Sonata al Chiaro di Luna’ di Beethoven, dopo che la partitura è stata lanciata contro la superficie della luna, come accade con un segnale in codice Morse. L’effetto che se ne ricava è una resa fedele, ma caratterizzata da lacune. Alcune note e talvolta intere sezioni sono state smarrite durante la fase di transito lunare»
“All you need is a good/walk and a brand new/position/ then we can spread/the real soul, doin’it/like a mission, rave!”

Di questo brano mi hanno sempre attirato i due accordi delle tastiere. Quelli che arrivano poco dopo l’inizio.
Sempre quelli, solo quelli: si ripetono – in questo brano che è anche privo di bridge – identici, dall’inizio alla fine. Sono la spina dorsale del brano. Sono quelli su cui poi la chitarra poggia i suoi ricami. La linea del basso è eseguita con le tastiere.
Quei due particolari accordi – messi lì e con quella modalità cantilenante – farebbero capire a chiunque che questa è una sua canzone.
Sono la sua firma, la sua “cifra stilistica”. Come accade in storia dell’arte: un elemento, solo quello, ti fa capire che quel particolare non può essere altro che la linea di contorno netta e sinuosa che ti porta ad individuare Raffaello, lo sfumato che ti collega immediatamente a Leonardo o i muscoli scolpiti che ti fanno capire subito che quel disegno appartiene a Michelangelo.
Due accordi tutti “suoi”. Nel suo stile.
“Arrivederci cock/poppy, that was hip/ yesterday, rave!/New thing hitting/where it feel good/what did you say?/rave!”

Un brano – “Rave” – che è dunque parte integrante dell’album che porta il suo nome.
Un album che, nel 1999, avrebbe dovuto sancire – come sottolinea anche Ben Greenman nel suo “Purple Life” – il rilancio della carriera di Prince.
Un rilancio che non si era concretizzato (o lo avrebbe fatto solo in parte), all’interno di un anno in cui i cambiamenti (anche e soprattutto nella vita di Prince) erano stati tanti e definitivi.
La fine del matrimonio con Mayte. La presenza sempre più chiara ed infiltrante di Larry Graham nella sua vita. L’arrivo di Manuela.
Di cosa parla, dunque, “Rave”?
Di nulla in particolare. Siamo sempre all’interno del genere: “have fun”. Ascolta, divertiti e basta!
Giochi di parole che si piegano come cera all’interno del gioco della musica. Un riempitivo sonoro non necessariamente caratterizzato da un senso. Anzi, da un certo momento in poi, il senso delle parole non è più un requisito strettamente necessario. Non è affatto indispensabile.
“Brutha playing an/apache scarf, Gaultier-/stop/if I had a dollar for/every time they/smiled/ I’d sho nuff jump and/holla/‘cause I’d sho nuff be/ rich a while/ Everybody rave!”

Fonti:
- princevault.com
- Ben Greenman “Purple Life”
- YouTube
- Rolling Stone, 20 gennaio 2000
- 500princesongs.com, 18 dicembre 2016
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